di Diego Bossi (Twitter: @dibo139)
Ho sempre
pensato che le introduzioni siano un segno di debolezza dell’autore, un modo
ausiliario per spiegare e comunicare laddove il testo non arriva. Non saranno queste
righe, a fare da eccezione, perché anch’esse cercano di sopperire a una
debolezza, quella di un racconto dall’animo autobiografico, si, ma proprio per
questo, destinato alle persone che hanno condiviso con me quel tratto di vita
in cui mi sono dedicato a una malattia della sfera ginecologica chiamata
endometriosi, unendomi al coro rivendicativo delle donne che ne sono affette.
Un racconto in pigiama, direi; buono solo a girare per casa con disinvoltura,
fra le persone che questa casa la abitano, ma non pronto a uscire in strada: non
si è visti di buon occhio, per strada, in pigiama.
Ecco, forse
è proprio questo il compito di questa introduzione: mettere un vestito al
racconto.
“Il grigio e il verde”, scritto in prima
persona, mi vede protagonista come attivista sindacale, dove nel corso della
mia militanza, mi imbatto per caso nella lotta di alcune donne malate di
endometriosi, impegnate a rivendicare diritti e assistenza da uno Stato sempre
più assente e a denunciare le discriminazioni – specie in ambito lavorativo –
che devono subire.
Dopo mesi
di collaborazione e impegno sociale, vengo contattato dalla malattia stessa
che, fattasi donna, vorrebbe incontrarmi per parlare. Da qui inizia il
racconto, dalla mia decisione – tutt’altro che pacifica – di incontrarmi con
questa “Bestia” divoratrice di donne e sogni.
Questo
racconto non dà risposte né offre soluzioni, ai detentori di certezze ho sempre
preferito i portatori sani di dubbi.
Ne Il grigio e il verde
cerco di esplorare
più a fondo possibile il dolore delle donne, evidenziando le tenebre
che si celano dietro al loro sguardo e mettendo in discussione l’intero
mondo del volontariato, sia come pulsione individuale, sia come
strutturazione
sociale. Associazioni più impegnate a combattersi e
pubblicizzarsi che a perseguire i propri obbiettivi statutari, associate
passive e trasportate dall’inerzia, un’inerzia fuorviante e
truffaldina che offusca l’obbiettività e l’autonomia del giudizio.
Chi è
veramente la Bestia e dov’è? Siamo veramente sicuri di essere diversi da ciò
che combattiamo? E se il nemico altro non fosse che uno specchio? Può un uomo,
capire realmente una donna fino in fondo o la loro diversità è tale da
frapporre una distanza che non ammetteremo mai di avere?
Dietro le
righe di questo breve scritto ci sono mesi della mia vita, persone vere che
porterò nel cuore per sempre e a cui devo solo gratitudine e scuse.
Si dice che
un solo gesto, a volte, valga più di mille parole. Se questo racconto fosse un
gesto, sarebbe una carezza, fatta col rovescio delle dita, sulla guancia rigata
dalla lacrima di chi soffre, di chi si mette in discussione, di coloro che
nella vita hanno combattuto un nemico e hanno scoperto di averlo dentro, di
quelli che escono di casa eroi per rientrare sconfitti dai propri limiti, di
tutte le donne vittime della discriminazione di genere.
Una
piccola, delicata, leggera carezza.
Forse è
niente.
Forse è
tutto.
Che
la lacrima evolva, divenga sorriso,
e
poi, dolcemente, ruga.
L’INCONTRO
C
|
ammino. Per
un momento pare quasi sia riuscito a sgombrare la mente da tutto e da tutti,
l’unica percezione che ho è la cadenza ritmica dei miei passi.
Cammino.
Lentamente e con garbo i pensieri iniziano a bussare nella mia testa: vogliono
entrare, loro; non li voglio, io.
Entrano.
Mica si fermano davanti alle porte chiuse, i pensieri. Loro diventano liquidi e
passano nelle fessure, tu gli chiudi la porta in faccia e poi li senti
sorridere alle tue spalle, ti giri di scatto e non li vedi. Ma ti sussurrano
all’orecchio.
Cammino.
Ora veloce, per la curiosità; ora lento, per il timore.
Che aspetto
avrà? Faccio bene ad andare? Sarà utile a qualcuno tutto questo?
Ormai
mancano pochi metri al luogo dell’appuntamento, quella panchina nel Parco
Sempione, tra il monumento equestre erto a Napoleone III e l'Arco della pace. I battiti del mio
cuore accelerano e con loro i miei passi. Tra pochi secondi i nostri sguardi si
incroceranno: da una parte io, con tutte le mie imperfezioni, le mie paure, il
mio senso di impotenza; dall’altra lei, l’endometriosi, la malattia delle
donne, quella che pochi conoscono, quella del tessuto dell’utero che durante il
ciclo si forma in altre parti del corpo, quella dei forti dolori e
dell’infertilità, quella che fa perdere il lavoro e i mariti. Quella che
calpesta la vita.
Mi fermo,
sono arrivato. Arresto i miei passi e con loro il respiro.
Lei mi è di
fronte, è giovane e bella, il suo sguardo è profondo, i suoi occhi hanno un
taglio allungato e le iridi emanano un colore a metà tra il grigio e il verde,
a volte pare grigio, come il cielo da cui scroscia la pioggia; a volte verde,
come certi prati che sembrano non finire; altre ancora, una perfetta
commistione tra le due tonalità, e nel tempo in cui cerchi di definire il
colore dei suoi occhi, il suo sguardo ti cattura.
Quando le
chiesi che aspetto avesse e come l’avrei riconosciuta, lei mi disse che sarebbe
stata la mia immaginazione, sulla base del mio vissuto, a darle un aspetto
fisico.
Non so
quale parte o insieme di parti, quale delle decine di storie di donne malate di
endometriosi che ho letto o ascoltato, abbia prodotto l’immagine che ho dato a
questa malattia.
Mi faccio
ingannare dal suo aspetto innocente, dimenticando con chi ho a che fare mi
avvicino a lei, le guardo gli occhi, che è cosa assai diversa da: "la
guardo negli occhi", perché io non voglio vedere lei, ma cosa le alberga
dentro.
Le guardo
intensamente gli occhi, come fossero buchi della serratura di una porta che
protegge un'intimità da sguardi indiscreti. Lo devo ammettere: la mia è una
curiosità malata alla fonte, fatta della stessa materia del guardare un
incidente stradale, una rissa o due che fanno l'amore. Una curiosità che ho
pagato caro.
D'un tratto
i suoi occhi sprigionano l'ignoto, per la prima volta in vita mia capisco quale
aspetto abbia il dolore.
Mi scappa
un grido soffocato e faccio un passo indietro.
Lei mi
guarda con un’intensità tale da farmi sentire posseduto. E sorride. Il suo
sorriso è bello quanto terrificante. Sembrerebbe che una cosa escluda l'altra,
non può esserci oscurità nella bellezza di un sorriso.
No, non è
così, quel sorriso è l'emblema dell'endometriosi: la bellezza di una donna, il
male che si porta dentro.
Il mare
dalle verdi sfumature che lambisce certe grotte e lo stesso che, grigio e
tempestoso, ferocemente ti inghiotte.
Il grigio, Il verde.
Un brivido
mi percorre la spina dorsale. Faccio un respiro profondo, cerco di radunare
tutte le parole e i concetti che mi ero prefissato di esprimere. E con voce
alta e tremante, inizio a parlare.
IL DIALOGO
- «E
pensare che due anni fa io la parola endometriosi non l’avevo mai sentita. Ora
mi trovo qui, davanti a te, la Bestia, come le donne che senza pietà colpisci
sono solite chiamarti.
Sai, devo e
voglio essere sincero con te: mi fai schifo! Mi fa schifo quello che fai, il
modo subdolo in cui lo fai, ma soprattutto mi fa schifo la tua intelligenza da
stratega nel fare soffrire le donne; perché tu non colpisci forte, non colpisci
piano: colpisci il giusto! Quell’equilibrio perfetto di intensità e modalità da
rendere tutto maledettamente difficile e lontano dalla soluzione. Hai presente
quelli che perdono il lavoro a mezz’età, troppo giovani per la pensione e
troppo anziani per il ricollocamento? Ecco, tu sei così: abbastanza grave da
rovinare la vita delle tue vittime, ma non abbastanza da farle ottenere un
aiuto dalle istituzioni. Vogliamo poi parlare delle tue prede? Potevi colpire
tutti, indistintamente dal sesso, invece hai scelto le donne, sapendo che sono
discriminate in partenza e che sarebbero state abbandonate a se stesse. Ma tu
non ti sei accontentata di questo, hai voluto rincarare la dose della tua
perfidia acuendo il loro dolore nella fase mestruale, mimetizzandoti così
nell’incapacità delle tue vittime di sopportare i dolori del ciclo, alimentando
la diffidenza e il pregiudizio del mondo maschilista: sei donna e devi
soffrire!
Non so
perché hai scelto me, mi domando cosa mai puoi avere da dirmi e soprattutto
cosa mai posso avere io da ascoltare».
- «Tu sei
presuntuoso, saccente e codardo!»
- «Io?! Ma
se è un anno che…»
- «Un anno
che cosa?! Sentiamo, cos’hai fatto in un anno? Cosa credi di aver cambiato? Sei
ridicolo! Credi che basti scrivere articoletti struggenti e giocare al piccolo
giornalista per combattermi?»
- «Beh, la
vuoi sapere una cosa? Io non sono un codardo! Anche se sono un uomo ti ho
fronteggiato a viso aperto sempre, senza mai tirarmi indietro».
- «Io, io,
io, io e ancora sempre e incessantemente io! Ma lo vuoi capire che qui il
problema non sei tu?! Siete tutti bravi a misurare il vostro ego sulla barra
millimetrata dell’impegno sociale».
- «Non ho
mai chiesto riconoscimenti a nessuno, e comunque lo hai detto tu: il problema
non sono io. Il problema sei tu».
- «È
questo, caro Diego, il più grande errore che si possa fare, il problema non
sono io.
Sai, c’è
una massima famosa che fa più o meno così: “Il problema non è il problema, ma
cosa fai tu di fronte al problema”. Ecco, cosa fai tu? Cosa fa il medico? Cosa
fa la paziente? Cosa fa la gente?
È troppo
facile prendersela con me, io sono una malattia, sono fatta di cellule e
molecole, non ho consapevolezza di me stessa come voi umani, a me non interessa
esistere perché io esisterò sempre e comunque, cambierò nome, cambierò effetti,
ma continuerò ad esistere. È il postulato di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla
si distrugge, tutto si trasforma”, io sono il fruscìo degli alberi mossi dal
vento, la nuvola che oscura e il sole che illumina; sono quello che vedi ma non
guardi, che senti ma non ascolti. Ma voi volete dare un volto e un nome a tutto
quello che non conoscete o che non vedete, perché non riuscite a relazionarvi
che con voi stessi, vi fa sentire più sicuri, lo fate con le religioni, con gli
uragani come con le malattie. Personificate me per dare un alibi alla vostra
inconcludenza, date sembianze umane a ciò che umano non è, perché chi umano è,
l’umano non sa più fare. Ma quando capirete che su di me si riflette il peggio
di voi?!»
- «E tu
quando capirai che colpire l’utero significa colpire il fulcro dell’intera
razza umana?! Com’è possibile accettare che una donna debba subire simili
sofferenze solo perché portatrice di un organo che è il sacro simbolo della
vita? Di più: com’è possibile accettare che di questo fardello, la donna, debba
accollarsene interamente il peso? Sei di una viltà vergognosa!»
- «Non ci
provare neanche a giocare al paladino dei diritti umani con me, perché non
funziona! Se io sono vile voi uomini cosa siete? Voi che vedete le donne come
oggetto al vostro servizio: sfogo sessuale, faccendiera di casa,
contenitore dei vostri figli, belle
finché utili, utili finché belle. Guardati dentro, solo lì capirai cos’è la
vergogna.
Trovo
perfino incomprensibile e fastidioso che tu ti sia interessato di quello che
faccio io alle donne».
- « Non c’è
nulla da comprendere, l’elemento che più mi indusse a collaborare alla campagna
informativa su di te e a fare mie le rivendicazioni delle donne che colpisci,
soprattutto nell’ambito sindacale, in cui sono impegnato, fu sicuramente la
lettura di decine di testimonianze postate in rete dalle tue vittime. Fu allora
che decisi di impegnarmi in questa causa, scrivendo volantini e articoli,
pubblicando interviste, allestendo banchetti informativi. Allora non compresi
appieno la complessità di quel mondo. E comprendere pienamente un qualsiasi
problema è la base di partenza per affrontarlo. Lo devo ammettere: con te,
tutt’ora, ho delle serie difficoltà».
- «Siete in
molti ad averne. Credete di comprendermi sulla base di quello che dicono o
scrivono le donne che colpisco, ma nessuno è capace di andare oltre, di
viaggiare mentalmente nei remoti luoghi del dolore e guardarmi negli occhi là,
dove le donne non diranno e non scriveranno. Vedete in me il dolore fisico, i
più sensibili captano il dolore della psiche sintetizzandolo semplicisticamente
con sentimenti come tristezza, autocommiserazione, sensi di colpa e
inadeguatezza. Ma nessuno, nessuno, riesce non dico a raggiungere, ma nemmeno a
intravedere il dolore dell’essere, quella macchia indelebile sull’essenza della
vita, che ne devia la rotta e ne sposta gli equilibri. Ricorda: non esiste male
più grande di quello che può celarsi dietro al sorriso di una donna.
Mi cercate
con le risonanze e le ecografie, ma non sapete più cercare col cuore. Il
radiologo non vedrà l’amore incompiuto di una donna che non sarà riuscita a
fare padre il suo compagno e nonni i suoi genitori, non vedrà la frustrazione
che si prova non riuscendo ad essere amante, non vedrà il dolore di una madre
che non riesce a correre su un prato con suo figlio, non vedrà mai la
differenza tra un sorriso di felicità e un sorriso sforzato che ti senti in
dovere di offrire a chi ti ama.
Poi c’è la
cosa più invisibile di tutte, caro Diego. Quella che spesso non vedono neanche
le mie vittime, ma questa, in fondo, è una cosa che colpisce tutti: uomini e
donne, malati e non».
- «E quale
sarebbe ‘sta cosa?»
- «Il
debito».
- «Il
debito?!»
- «Si, il
debito. Il debito che la vita contrae nei vostri confronti e di cui pretendete
perennemente il risarcimento.
Ci sono cose
che ognuno di voi percepisce come irrinunciabili e non accetta di esserne
privato. Io tolgo molte di queste cose alle mie vittime, il dolore che infliggo
è invalidante per il corpo e per l’anima, spesso privo le donne della
maternità, di una vita lavorativa regolare con cui creare la propria
indipendenza, di un’attiva partecipazione nelle relazioni sociali.
Succede
così che il maltolto diventa sogno, il sogno ossessione, l’ossessione incubo.
Si finisce col passare la vita a inseguire quello che non si ha avuto.
Dimenticando quello che si ha».
- «Hai
detto una grande e scomoda verità. Per te che non sei umana è facile fare
analisi e sparare sentenze, cosa può saperne una malattia delle ambizioni, della
gioia o della tristezza? Cosa ne sai tu dell'amore e della disperazione, della
famiglia e della società, dell'abbandono e dell'emarginazione. Avanti, dimmi
cosa sai della vita, tu che la vita mortifichi».
- «Forse
niente, forse tutto. Ma la mia visuale è nitida perché il mio sguardo è
disinteressato. Osservo il mondo delle donne che possiedo, osservo il dolore
che le infliggo, il vuoto che le creo intorno; osservo la vostra indifferenza,
la pavidità umana. Combattete guerre stupide: il politico che deve vincere, il
partito che deve avere la maggioranza, la manifestazione più numerosa; combattete
a chi è più bravo a combattermi, a chi arriva prima a colpirmi, al medico
migliore, alla storia più dolorosa, alle scelte più giuste, all'associazione
più valida.
Combattete
tra voi, mentre io sto alla finestra a guardare».
- «Molte
volte mi sono ritrovato a fare le tue stesse osservazioni senza mai individuare
una soluzione percorribile. Si inizia sempre nel migliore dei modi, con le
migliori intenzioni, poi si innescano meccanismi inevitabili: competizione,
brama di fama e di riscatto sociale finiscono col prevalere. È inutile, siamo
così, noi. Quando ci vedi fare del bene devi chiederti per quale motivo lo
facciamo. E spesso scoprirai che vogliamo coccolare le nostre coscienze e
lustrare il nostro ego. Si fa volontariato anche per sopperire a vuoti
sentimentali e sociali, per avere considerazioni e riconoscimenti che non si
trovano nella sfera privata o lavorativa.
Il calcio
da noi non è solo lo sport nazionale, ma una filosofia di vita. Siamo sempre
buttati in un campo, con maglie differenti a cercare di mandare un pallone in
una rete. Ci sono i calciatori e gli allenatori, ossia coloro che in prima
persona lottano per l’obbiettivo; poi c’è il pubblico sugli spalti, migliaia di
individui che passivamente tifano per una squadra o per l’altra standosene
comodamente seduti a guardare, a gioire, a criticare. Ecco, ogni giorno, in
ogni luogo, per ogni causa, va in scena questa partita. E nessuno si domanda
chi o cosa abbia chiuso tutti nello stadio per sbirciare divertito».
- «E
quindi? Come se ne esce? Qual è la soluzione?»
- «Le due
squadre in campo smettono di affrontarsi e si alleano perché capiscono che
l’avversario in realtà è un altro, il pubblico abbandona gli spalti e scende in
campo, tutti insieme escono dallo stadio affiatati e determinati e vanno
prendersi ciò che gli spetta. Ti pare verosimile?»
-
«Sinceramente, no».
- «Ecco,
appunto, semplicemente, la soluzione, non esiste».
- «Eppure…»
- «Eppure
cosa?»
- «Eppure
la marcia mondiale, le associazioni… non so, sembrerebbe che le potenzialità le
avete tutte»
- «Dobbiamo
ridare alle parole il loro significato. Il termine associazione indica una
moltitudine di persone che si associano per perseguire un obbiettivo.
Un’associazione è tale quando le persone associate partecipano ai processi
decisionali, come alle attività, altrimenti, l’associazione non è più un mezzo
ma il fine, diventa un gruppo di potere autoreferenziale che si nutre di se
stesso, dove il lavoro e lo sforzo di tanti – spesso inconsapevoli –, si
traduce nell’interesse di pochi.
La marcia
mondiale è senza dubbio un evento importante, ma non dobbiamo dimenticarci che
dev’essere un punto di partenza e non di arrivo».
- «Parlami
di te».
- «Cosa
c’entro io?»
- «Più di
quello che credi. Prima mi hai chiesto perché avessi scelto te, e tu? Perché
hai scelto me, invece? Cosa ci azzecca un uomo? Intendiamoci: di uomini ne vedo
tanti, ma in qualità di mariti, fratelli
e padri di donne malate. Tu invece no, nulla sapevi e nulla ti legava a me.
Eppure ci ritroviamo qui, ora, io e te. Perché?»
- «L’unica,
amara e difficile verità è che non lo so. Nella vita ci passano davanti ogni
giorno tantissime cause a cui dedicarci, ma solo alcune ne scegliamo.
Proprio non
lo so perché ho scelto te.
Ho creduto
di aiutare delle donne che nel loro dolore lottavano per i loro diritti, ho
pensato che scrivere di loro potesse essere un segno di vicinanza e di
comprensione.»
- «Ma?»
- «Ma
vicinanza e comprensione sono fatte di fatti, non di belle parole. Ci sono
persone stupende che lottano al fianco delle tue vittime ogni giorno, io altro
non sono che un paroliere vuoto che nasconde i suoi limiti dietro ai suoi
testi, e più le parole son belle, meglio mascherano il vuoto della sostanza. Contenta
ora?»
- «Si. Non
sarò ipocrita. Era quello che volevo sentirti dire, era lì che volevo arrivassi.
Hai
scritto
di noi senza comprendere chi sei tu, hai narrato la parte scenica
dell’endometriosi, quella sul palco, davanti alla platea, dove tu eri
spettatore attento. Ma non sei andato a sbirciare dietro il sipario,
avresti
visto cose che fanno male, caro Diego. E forse saresti riuscito a
guardare
negli occhi l’unico vero peccato originale esistente, che non è quello
propinatoci dalla chiesa maschilista, di mangiare un frutto, dove la
donna è
tentata e tentatrice, ma quello di conferire alla donna l’esclusiva
dell’origine: la formazione della vita nel suo grembo, quindi la
continuità
della razza umana. A lei l’enormità della gioia e del dolore, dei meriti
e
delle colpe, delle decisioni e delle responsabilità; del grigio e del
verde. Si, proprio così, il colore dei miei occhi che tanto guardavi
prima significa
questo: la complementarità degli opposti, nulla esisterebbe se non
esistesse il
suo contrario.
Eccolo il vero
peccato originale, infima bestia che crea nei remoti inconsci di entrambi i
sessi sensazioni ataviche e ancestrali, di cui non vi rendete nemmeno conto.
L’uomo sarà per sempre distaccato dal processo di formazione della vita, e
questo distacco per lui sarà una colpa irredimibile; la donna non accetterà mai
questo distacco dell’uomo nella fase più solenne della sua esistenza.
Il peccato
originale. Che nessun battesimo potrà mai cancellare».
IL LASCITO
Assorto nei
pensieri e provato dalle intense parole scambiate con la bestia, guardo tutto
senza guardare niente, fisso il vuoto, perché di vuoto sono fatto e nel vuoto
mi riconosco.
Mi volto
verso di lei, ma lei non c’è più. Svanita. Nel nulla.
Guardo,
guardo ovunque, guardo fra gli alberi e i cespugli, lungo i sentieri e i bordi
dei laghetti. Stupidamente mi alzo e giro intorno a me stesso guardando in
basso, come se potesse essere sotto di me.
Una
sensazione astratta di vuoto e di smarrimento mi invade, cammino fra gli alberi
del parco dove fino a pochi minuti prima stavo parlando con lei, mi riscopro
triste, di una tristezza diversa, figlia del sapere e madre di nuove
prospettive. Il guscio della verità, lentamente, si crepa, fino a schiudersi e
a rivelare l’ovvio: non esiste nessuna malattia che si è fatta donna per
incontrarmi. Sono io ad averla immaginata, come in un sogno a occhi aperti
costruito ad hoc dalla mia coscienza. E ora mi ritrovo qui, al capolinea di
questo percorso introspettivo, la mia sostanza è più povera, ma la corazza che
la ricopre più spessa. Perché il dolore diviene accettazione e poi saggezza:
lacrima, sorriso, ruga.
In questa
mattina d’autunno, osservo la brezza che fa oscillare gli alberi e sposta
velocemente le nubi, creando un gioco d’alternanza tra l’ombra e i raggi del
sole.
D’un tratto,
quasi a liberarmi dalla sua assenza, riecheggiano nella mia mente le sue
parole: “…io sono il fruscìo degli alberi
mossi dal vento, la nuvola che oscura e il sole che illumina; sono quello che
vedi ma non guardi, che senti ma non ascolti”.
Mi siedo
nuovamente sulla panchina, rilasso ogni muscolo e stendo la schiena, cercando
una pace che non merito.
Allargo le
braccia lungo lo schienale e lascio cadere a peso morto la testa all’indietro,
fissando il cielo.
Il senso di
vuoto e di solitudine, la speranza, il bisogno di amore e di amare, la dura
accettazione dei propri limiti e la voglia intensa di superarli. Sembrano
esserci tutte, le sensazioni di una vita vissuta.
Chiudo gli
occhi, vedo i suoi. Il grigio. Il verde.Scritto nelle province di Milano, Roma, Monza Brianza, Rimini e Lecco.
Pubblicato il 18 ottobre su www.cursorinellanotte.blogspot.it
Diego Bossi
Nessun commento:
Posta un commento