dal film Into the wild, (2007)
L’attenzione dei media si sofferma sovente sulle stragi familiari, dove uno dei coniugi uccide l’altro, i figli e, talvolta, se stesso assieme ad altri familiari. Questi eventi ci appaiono spesso “senza senso”, distanti, orribili, proprio perché provengono da un contesto, quello familiare, rappresentato come luogo sicuro, sede degli affetti, della reciprocità e della condivisione. Pensare che il pericolo possa venire proprio dal cuore della famiglia, trasformandola in una sorta di “teatro di morte”, getta un’ombra d’angoscia in ciascuno di noi.
Come sempre, di fronte all’ansia, tutti cercano di trovare confortanti spiegazioni, in modo da allontanare pensieri da cui mai si vorrebbe essere sfiorati. Allora si scava nella vita dell’omicida/suicida, si utilizzano parole come “mostro” e “malattia psichiatrica”, si cercano rassicuranti e lineari rapporti di causa effetto (“Lui ha fatto questo perché lei ha fatto quest’altro…”), che hanno la funzione di allontanare la possibilità che qualcosa di simile possa sfiorarci.
Quasi sempre viene chiamata in causa la depressione che affligge il protagonista, il quale è “vittima” di una visione assolutamente negativa della realtà e del futuro (il così detto delirio di rovina) arrivando ad uccidere i propri cari per sottrarli ad un destino tanto infausto.
La questione, a mio avviso, è che questi orrori non sono poi così estranei alla “gente comune”. Dopo tutto stati estemporanei di depressione, il così detto umore nero, fanno parte dell’esperienza di ciascuno. Quindi forse è utile non distogliere celermente l’attenzione, riflettendo sulle abitudini di pensiero e sugli atteggiamenti che predominano negli stati di depressione.
Numerosi psicologi ritengono che non sono tanto gli eventi negativi occasionali a determinare il disturbo psichico, quanto piuttosto il modo di “vedere” la realtà, di costruirla e dargli significato. Nelle stragi familiari, così come nelle situazioni negative di ogni giorno, non sono tanto gli eventi in sé a causare il malessere ma piuttosto le valutazioni che ne vengono date dagli attori.Sia nella meno comune depressione che nel più frequente umore nero, prevale uno stile di pensiero egocentrico e pessimistico, nel quale gli eventi negativi vengono autoriferiti, attribuiti alle proprie mancanze, mentre quelli positivi sono minimizzati e non concessi ai propri meriti.
L’egocentrismo, inoltre, impedisce di considerare in modo realistico quali ambiti sono davvero sotto il proprio controllo, ponendo gli individui in affannose situazioni nelle quali si sforzano di rovesciare l’esito di eventi sui quali hanno poche possibilità di azione. Per di più la propensione a rimuginare da soli aggrava gli atteggiamenti negativi, provocando un crescendo di valutazioni pessimistiche ed interpretazioni erronee.Talevisione distorta fa si che gli impedimenti della vita non si presentano più come sfide, le quali potrebbero essere superate solo adottando un’interpretazione diversa, ma come difficoltà insormontabili, prove tangibili della propria inettitudine.
L’alternativa ha una costruzione pessimistica della realtà è l’uso di una lente interpretativa diversa, fondata sull’apertura alle novità, su una visione creativa dei problemi, che consenta, di fronte agli imprevisti, di non catalogarli come “catastrofi” ma come opportunità di mettersi in gioco. Questo stile di pensiero contiene un decentramento da sé, la capacità (e l’umiltà) di pensare che il proprio punto di vista non è l’unico possibile. Esso implica condivisione, confronto, flessibilità. Senza apertura all’altro non c’è possibilità di rinnovamento.
Contrariamente a quanto si possa pensare, un’interpretazione pessimistica del mondo non è più profonda ed intelligente; da parte sua l’ottimismo non è sciocca convinzione che “tutto si sistemerà”, ma capacità creativa, di adattamento, che anche le situazioni più impervie e complesse concedono.
Francesco Mori .
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