E' Stato commovente per noi amministratrici del comitato ricevere la mail contenente quest articolo, scritto con grande sensibilità da Maria Silvia Avanzato, una donna che pur non avendo l'endometriosi ha capito cosa sia , ha ascoltato e continua ad ascoltare oltre le apparenze... Un grazie di cuore dalle amministratrici che vi invitano tutte a leggere quanto ricevuto.
E-mail di Maria Silvia Avanzato:
"Gent.ma,
ho scritto un articolo (che trova allegato) esponendo alcune mie riflessioni, in base a quello comprenderà come io sia giunta a conoscenza del vostro sito. Meditavo da qualche tempo di regalare ad una cara amica queste parole e volevo che diventassero linfa fruibile per tutte coloro che volessero riconoscersi in questa situazione. La mia amica non sospetta nulla, la mia amica probabilmente non se lo aspetta ma credo meriti ogni mio pensiero descritto. Non mi dilungo con le spiegazioni perché ho già scritto ogni cosa nel testo che le sto mandando, incluso il mio nome, il mio mestiere e la storia che mi porta al blog, all'endometriosi. Vorrei sapere da lei/ da voi se il mio contributo al blog possa fungere da spunto costruttivo, se possa essere pubblicato e messo a disposizione di chi legge, di chi soffre, di chi si interessa. Io stessa ho scritto seguendo le mie emozioni e non so se questo testo sia una lettura indicata, per questo lo chiedo a voi e mi rimetto al vostro giudizio fidandomi sin da subito del vostro parere. Se vorrete renderlo pubblico, sarò più vicina all'amica che ho e a tutte le amiche che da qualche parte forse ho a mia insaputa.
La ringrazio per l'attenzione che vorrà darmi e attendo sue"
ARTICOLO:
"Sono nata nel 1985 portando in dote un lieve carico di problemi fisici che hanno disegnato una ruga quasi impercettibile sulla fronte di mia madre. Appena approdata alla luce del giorno, lei mi ha cercato con ansia le mani e ha detto soltanto “Le unghie, controllate che abbia tutte le unghie!”. La sua paura era che mi mancasse un’unghia, non sapeva che anni dopo le avrei rosicchiate tutte e dieci. E ne avevo dieci, assieme a quel lieve carico di problemi fisici che non ti fanno perdere il sonno ma pensare “crescendo passerà”. La virgoletta silenziosa che rallenta i battiti del cuore, lo zucchero ballerino nelle vene, il mio piccolo carico. Lieve. Mi chiamo Maria Silvia e non ho l’endometriosi, è una parola che ho ignorato fino all'anno scorso, suonava alle mie orecchie come il nome di una squadra, un righello, un sistema di misurazione. Metro, nel suono di quella parola io sentivo metro e pensavo alle quantità, ai pesi, alle lunghezze. Tratto con cura le parole, sono la solida base del mio lavoro che è scrivere libri, intrappolare attimi, fare la conta dei suoni. Non ho l’endometriosi e il mio utero è un inquilino quasi sconosciuto, sta lì dove Dio l’ha messo, non è mai stato culla e forse non ha pareti foderate di velluto, non avverto il suo richiamo di tamburo, è certamente una radice ma ben piantata nel terreno, giù, dove ogni cosa cessa di esistere. Non penso mai al mio utero, so che c’è, a volte me lo ricorda con attimi di dolore poi si mette buono. Un anno fa ho incontrato C. attraverso le pagine dei libri: lei scriveva, io pure e lo facevamo a un isolato di distanza. Non ci eravamo mai incontrate pur abitando vicine o forse sì, ma senza restarci impresse. Mai sfiorate in un negozio, pur conoscendo gli stessi negozianti. Nate in anni diversi, con dieci unghie, venti in totale, l’accento bolognese, l’amore per la carta scritta, battezzate nella stessa chiesa, partecipanti della stessa festa, ostinatamente unite dal destino pur senza accorgercene. Ci siamo conosciute e riconosciute una mattina in un piccolo bar spoglio dove ero capitata per caso, ci siamo dette qualcosa di sfuggita, abbiamo riso della nostra sbadataggine. “Possibile che io non ti abbia mai incontrata prima?”. Possibile sì, chiedi al destino. Credo fu allora, su un tavolino piccolo come una pedina del domino e sotto un neon verdastro, che C. mi disse “Perché ci sono tante cose che dovremmo raccontarci”. E con un sorriso misterioso, sereno, tranquillo aggiunse “Ci sono tante cose che non sai di me”. Non so da allora quanto sia trascorso, forse il tempo di un caffè o di una telefonata. Fatto sta che C. mi ha disse anche “Perché tu non lo sai, ma io ho una malattia che si chiama endometriosi e questo mi limita un po’ negli spostamenti”. Endometriosi. Sotto misurazione, alle mie orecchie. Misurazione profonda. Metro interno. Centimetro sottocutaneo. Un’improvvisa idea di grandezza e vastità quantificabile sotto il sorriso di C. Quando le ho chiesto “E cosa ti succede?” mi ha risposto lì per lì dicendo che si sentiva affaticata. “Se porto a casa la spesa e faccio due rampe di scale, poi mi sento stravolta”. Ne avremmo riparlato, della sua endometriosi e della sua fibromialgia, passando attraverso i sacchetti la spesa e svelando il resto, tutto il resto, quel peso sfiancante che C. appoggiava sul suo lunghissimo metro interno. Per gradi, sedute nel salotto della casa di C. che è pieno di ricordi della mamma, di tè profumato, di cuori appesi, di legno chiaro e lanterne. Lì abbiamo ripescato la malattia per parlarne e guardarla alla luce del sole. Così, sedute vicine, in salotto. Un luogo caldo e accogliente come dovrebbe essere quell'inquilino sconosciuto dell’utero, una pancia ricreata con cuscini gonfi e tiepidi, cornici per i momenti importanti, tende sottili sulla neve all'esterno. Così da un anno io conosco C. e lei conosce me, accettiamo in questa amicizia anche l’endometriosi che non sempre ci raggiunge per l’ora del tè ma se decide di farlo non passa inosservata, arriva come una furia battendo i tacchi sulle scale e lascia aperte tutte le porte. E di quella indesiderata endometriosi, attraverso C., ora so molto più di qualcosa. La vedo. Vedo la bellezza di C. che è un lampo di luce estiva accecante e sembra crescere ogni volta che le sue viscere si contorcono. Più soffre e più è bella, C. Più soffre più sta allo specchio a cesellare il suo trucco pastello. Più soffre più la sua maschera per affrontare la sfida quotidiana per strada e nei negozi diventa un prodigio di porcellana. Bella da non immaginarle mai un metro srotolato nel grembo e su, velocissimo, fino al cuore. Leggo in lei ogni tremante oscillazione di nervi sfiniti, all'erta, come se una tempesta fosse sempre nell'aria. C. è sempre pronta, C. non è mai al sicuro. E non può dire sì al lavoro e nemmeno a un corso di canto, a un impegno che fissi una minima continuità sul suo calendario che è infinita lista di incognite nascoste dietro parole come “lunedì”, “martedì”, “domenica”. Le parole che abbondano sulla mia bocca e diventano occasione per collocare progetti, le parole che sono il mio tempo e i miei impegni certi. Salgo sul suo stesso taxi per una mattinata nel centro storico, con un sorriso e delle brioches calde, con i due figli che ha desiderato al punto da strapparli al suo metro doloroso. Va tutto bene, l’autoradio manda frammenti di canzoni, il tassista guida sicuro lungo i viali e il sole fa capolino attraverso il cappello frangiato degli alberi. Poi lei cambia espressione e ha negli occhi la scintilla di una guardia notturna che intuisce l’arrivo del ladro. “Non mi sento bene” dice. Infida, la malattia del metro, può darti tregua senza preavviso. Staccare i suoi festoni fatiscenti dal muro e fare le valige con la promessa di non tornare mai più. Può spingerti a credere che ci sia una vacanza da pianificare, una passeggiata da fare dietro l’angolo. Poi torna e lo fa con scarpe chiodate. Quando le pare viene a scompigliare le carte e ti ritrovi come C. dentro una coperta che diventa seconda pelle, spinta in un angolo di quella bella casa che hai addobbato d’amore. A chiedere aiuto. C. adesso può chiedermi aiuto e il mio aiuto non cancella il dolore, non arrotola il metro, non migliora le mattine. Tutto ciò che so dirle è “Fino a domani, resisti fino a domani” e sembro una che lo dice dalla tranquilla distanza di un tranquillo utero. C. è quella che si capovolge, C. è quella che piange, C. è quella che odia il suo dolore. Io sono quella all'altro capo del telefono, seduta. Eppure dell’endometriosi ho capito che ogni sofferenza è contagiosa. Per me che voglio bene a C. è insostenibile vederla alle prese con la faticosa speranza che la porta a tentare ogni rimedio: luce, massaggi, tisane fumanti, diete. Lei si affida come si affida qualcuno che, nonostante tutto, vuole “resistere fino a domani”. Il suono sordo della sofferenza ha spazzato via completamente le parole che suonavano come metro e metro soltanto, ora fanno baccano e mi trascinano con la mente nell'interno di una casa dove una donna soffre piegata in due e attorno a lei, come scintille buone, ci sono un marito e due bambini che s’ingegnano per apparecchiare la tavola. Di ogni momento con lei, con C., con l’endometriosi, il più dolce è stato il suo seccato rimpianto dopo una gita in campagna con la famiglia. “Stavamo camminando e sono inciampata, capisci? Sono caduta giù come una pera cotta, come se fossi un’imbranata” e te lo dice col broncio di una bambina che anche domani, ancora, più forte di prima, cercherà di migliorare i suoi passi mordendosi il labbro. Una donna fortissima e una bambina davanti a un pugno di biglie incontrollabili rotolate altrove, una bambina che cadrà ancora. Lei perde l’equilibrio ogni volta che il suo corpo lo decide e lo impone, lei sa che ci sarà una prossima volta. Vorrei regalare a C. una corsa in bicicletta anche se non ho mai imparato ad andarci e un’altalena veloce che sostenga il peso di tutti i sacchi della spesa all'ombra degli alberi, un taxi pieno di brioches che ci porti in giro all'infinito e una finestrella piccola sulla stanza di sua madre, sempre aperta, per affacciarsi e corrersi incontro senza paura di inciampare. Vorrei esplodere dentro il telefono dalla mia seggiola comoda e dire “Io ho capito la faccenda del metro perché ho capito la faccenda del peso”. Recentemente, seguendo la storia di donne come C., sono incappata in un brutto scambio di battute pubblico e sono inorridita di fronte a ragionamenti di altre donne. Donne che non hanno l’endometriosi. Che dicono alla C. che hanno accanto “smettila di fare la paladina della legge” quando C. sta solo gridando “il mio dolore è lo sconosciuto che è in te”. Perché C. dice solo la gran brutta verità sul fondo: tu non conosci questo calvario. Io forse sbaglio perché te ne spiego i dettagli e ti mostro la parte più risentita e sanguinante di lui, ma tu non lo conosci e continui a non conoscerlo, sei arpionata alla tua seggiola e alle tue dieci unghie perfette, al tuo utero che da qualche parte c’è. E funziona a dovere. E allora perché voltare la testa verso un utero incredibilmente vicino e tanto malato? Perché chiedersi cosa ci sia alla base dell’umiliazione che un gruppo di donne subisce quando ha l’impressione di essere stata spogliata e buttata in pasto alle bocche sbadate degli estranei? Estranei che, magari in buonafede o magari no, srotolano il metro in fretta e furia. Dunque è così incomprensibile che la donna che trema dentro una coperta alzi la testa e dica “Io so di cosa stiamo parlando”? Perché venire qui, su questo sito? Guardare le foto e leggere i racconti? Perché dobbiamo scendere dalla seggiola, dopotutto? Perché interrogarci sul nostro utero se il nostro utero non si è preso la briga di darci problemi finora? Perché l’endometriosi ha bisogno anche di donne non affette da endometriosi che immergano le mani nella malattia. Perché tendere la mano e aspettare che passi la notte è l’unico modo che ho trovato per spingermi dentro la malattia di un’amica, ma a volte si rivela più utile di una pillola. Perché io rispetto il vulcano impaziente e intrattabile che ha dentro e voglio che se ne parli. Qui e fuori di qui, dicendo le cose come stanno e senza sconti, usando - più che termini medici - termini dettati dal suono o dalle emozioni o dalle libere associazioni o dall'empatia. Parole con tutto il loro peso. Vorrei vedere donne ignare che diventano un giorno, magari in un bar, donne consapevoli e di lì a poco si trasformano nel ponte che conduce a chi soffre. Donne che si offrono di portare una spesa o di parlarne nelle scuole, di aiutare ad alzarsi o di stare al telefono un minuto in più. Donne che si gettano in pasto al mostro ingaggiando una battaglia personale senza apparente motivo, vere architetture di sostegno e di affetto che sorvolano i caratterini scuri degli esami clinici ed ereditano, condividono, trascinano il peso a metà. Nel loro piccolo, senza miracoli e senza eroismi, con la strategia della piccola attenzione, lo sguardo sicuro che incontra quello atterrito di C. e in un attimo le sussurra “So di cosa parliamo, so cosa si è appena seduto fra noi, ma qui ci sono anch'io ed è tutto sotto controllo”. Perché io non ti lascio andare via, non mi barrico dietro la mia porta, non ti perdo d’occhio, non voglio darla vinta al tuo intruso e sono qui per dargli la peggiore accoglienza, per strapparlo dal tuo giardino, per fargli capire che non gli conviene affrontarci tutte e due. Sono nata nel 1985, mi chiamo Maria Silvia, sono una scrittrice, ho un’amica che si chiama C., è una persona che amo, ho deciso di toccare senza guanti la sua endometriosi.
Mi chiamo Maria Silvia e ho l’endometriosi.
Ho scelto di avere la stessa endometriosi di C."
Maria Silvia Avanzato
E-mail di Maria Silvia Avanzato:
"Gent.ma,
ho scritto un articolo (che trova allegato) esponendo alcune mie riflessioni, in base a quello comprenderà come io sia giunta a conoscenza del vostro sito. Meditavo da qualche tempo di regalare ad una cara amica queste parole e volevo che diventassero linfa fruibile per tutte coloro che volessero riconoscersi in questa situazione. La mia amica non sospetta nulla, la mia amica probabilmente non se lo aspetta ma credo meriti ogni mio pensiero descritto. Non mi dilungo con le spiegazioni perché ho già scritto ogni cosa nel testo che le sto mandando, incluso il mio nome, il mio mestiere e la storia che mi porta al blog, all'endometriosi. Vorrei sapere da lei/ da voi se il mio contributo al blog possa fungere da spunto costruttivo, se possa essere pubblicato e messo a disposizione di chi legge, di chi soffre, di chi si interessa. Io stessa ho scritto seguendo le mie emozioni e non so se questo testo sia una lettura indicata, per questo lo chiedo a voi e mi rimetto al vostro giudizio fidandomi sin da subito del vostro parere. Se vorrete renderlo pubblico, sarò più vicina all'amica che ho e a tutte le amiche che da qualche parte forse ho a mia insaputa.
La ringrazio per l'attenzione che vorrà darmi e attendo sue"
ARTICOLO:
"Sono nata nel 1985 portando in dote un lieve carico di problemi fisici che hanno disegnato una ruga quasi impercettibile sulla fronte di mia madre. Appena approdata alla luce del giorno, lei mi ha cercato con ansia le mani e ha detto soltanto “Le unghie, controllate che abbia tutte le unghie!”. La sua paura era che mi mancasse un’unghia, non sapeva che anni dopo le avrei rosicchiate tutte e dieci. E ne avevo dieci, assieme a quel lieve carico di problemi fisici che non ti fanno perdere il sonno ma pensare “crescendo passerà”. La virgoletta silenziosa che rallenta i battiti del cuore, lo zucchero ballerino nelle vene, il mio piccolo carico. Lieve. Mi chiamo Maria Silvia e non ho l’endometriosi, è una parola che ho ignorato fino all'anno scorso, suonava alle mie orecchie come il nome di una squadra, un righello, un sistema di misurazione. Metro, nel suono di quella parola io sentivo metro e pensavo alle quantità, ai pesi, alle lunghezze. Tratto con cura le parole, sono la solida base del mio lavoro che è scrivere libri, intrappolare attimi, fare la conta dei suoni. Non ho l’endometriosi e il mio utero è un inquilino quasi sconosciuto, sta lì dove Dio l’ha messo, non è mai stato culla e forse non ha pareti foderate di velluto, non avverto il suo richiamo di tamburo, è certamente una radice ma ben piantata nel terreno, giù, dove ogni cosa cessa di esistere. Non penso mai al mio utero, so che c’è, a volte me lo ricorda con attimi di dolore poi si mette buono. Un anno fa ho incontrato C. attraverso le pagine dei libri: lei scriveva, io pure e lo facevamo a un isolato di distanza. Non ci eravamo mai incontrate pur abitando vicine o forse sì, ma senza restarci impresse. Mai sfiorate in un negozio, pur conoscendo gli stessi negozianti. Nate in anni diversi, con dieci unghie, venti in totale, l’accento bolognese, l’amore per la carta scritta, battezzate nella stessa chiesa, partecipanti della stessa festa, ostinatamente unite dal destino pur senza accorgercene. Ci siamo conosciute e riconosciute una mattina in un piccolo bar spoglio dove ero capitata per caso, ci siamo dette qualcosa di sfuggita, abbiamo riso della nostra sbadataggine. “Possibile che io non ti abbia mai incontrata prima?”. Possibile sì, chiedi al destino. Credo fu allora, su un tavolino piccolo come una pedina del domino e sotto un neon verdastro, che C. mi disse “Perché ci sono tante cose che dovremmo raccontarci”. E con un sorriso misterioso, sereno, tranquillo aggiunse “Ci sono tante cose che non sai di me”. Non so da allora quanto sia trascorso, forse il tempo di un caffè o di una telefonata. Fatto sta che C. mi ha disse anche “Perché tu non lo sai, ma io ho una malattia che si chiama endometriosi e questo mi limita un po’ negli spostamenti”. Endometriosi. Sotto misurazione, alle mie orecchie. Misurazione profonda. Metro interno. Centimetro sottocutaneo. Un’improvvisa idea di grandezza e vastità quantificabile sotto il sorriso di C. Quando le ho chiesto “E cosa ti succede?” mi ha risposto lì per lì dicendo che si sentiva affaticata. “Se porto a casa la spesa e faccio due rampe di scale, poi mi sento stravolta”. Ne avremmo riparlato, della sua endometriosi e della sua fibromialgia, passando attraverso i sacchetti la spesa e svelando il resto, tutto il resto, quel peso sfiancante che C. appoggiava sul suo lunghissimo metro interno. Per gradi, sedute nel salotto della casa di C. che è pieno di ricordi della mamma, di tè profumato, di cuori appesi, di legno chiaro e lanterne. Lì abbiamo ripescato la malattia per parlarne e guardarla alla luce del sole. Così, sedute vicine, in salotto. Un luogo caldo e accogliente come dovrebbe essere quell'inquilino sconosciuto dell’utero, una pancia ricreata con cuscini gonfi e tiepidi, cornici per i momenti importanti, tende sottili sulla neve all'esterno. Così da un anno io conosco C. e lei conosce me, accettiamo in questa amicizia anche l’endometriosi che non sempre ci raggiunge per l’ora del tè ma se decide di farlo non passa inosservata, arriva come una furia battendo i tacchi sulle scale e lascia aperte tutte le porte. E di quella indesiderata endometriosi, attraverso C., ora so molto più di qualcosa. La vedo. Vedo la bellezza di C. che è un lampo di luce estiva accecante e sembra crescere ogni volta che le sue viscere si contorcono. Più soffre e più è bella, C. Più soffre più sta allo specchio a cesellare il suo trucco pastello. Più soffre più la sua maschera per affrontare la sfida quotidiana per strada e nei negozi diventa un prodigio di porcellana. Bella da non immaginarle mai un metro srotolato nel grembo e su, velocissimo, fino al cuore. Leggo in lei ogni tremante oscillazione di nervi sfiniti, all'erta, come se una tempesta fosse sempre nell'aria. C. è sempre pronta, C. non è mai al sicuro. E non può dire sì al lavoro e nemmeno a un corso di canto, a un impegno che fissi una minima continuità sul suo calendario che è infinita lista di incognite nascoste dietro parole come “lunedì”, “martedì”, “domenica”. Le parole che abbondano sulla mia bocca e diventano occasione per collocare progetti, le parole che sono il mio tempo e i miei impegni certi. Salgo sul suo stesso taxi per una mattinata nel centro storico, con un sorriso e delle brioches calde, con i due figli che ha desiderato al punto da strapparli al suo metro doloroso. Va tutto bene, l’autoradio manda frammenti di canzoni, il tassista guida sicuro lungo i viali e il sole fa capolino attraverso il cappello frangiato degli alberi. Poi lei cambia espressione e ha negli occhi la scintilla di una guardia notturna che intuisce l’arrivo del ladro. “Non mi sento bene” dice. Infida, la malattia del metro, può darti tregua senza preavviso. Staccare i suoi festoni fatiscenti dal muro e fare le valige con la promessa di non tornare mai più. Può spingerti a credere che ci sia una vacanza da pianificare, una passeggiata da fare dietro l’angolo. Poi torna e lo fa con scarpe chiodate. Quando le pare viene a scompigliare le carte e ti ritrovi come C. dentro una coperta che diventa seconda pelle, spinta in un angolo di quella bella casa che hai addobbato d’amore. A chiedere aiuto. C. adesso può chiedermi aiuto e il mio aiuto non cancella il dolore, non arrotola il metro, non migliora le mattine. Tutto ciò che so dirle è “Fino a domani, resisti fino a domani” e sembro una che lo dice dalla tranquilla distanza di un tranquillo utero. C. è quella che si capovolge, C. è quella che piange, C. è quella che odia il suo dolore. Io sono quella all'altro capo del telefono, seduta. Eppure dell’endometriosi ho capito che ogni sofferenza è contagiosa. Per me che voglio bene a C. è insostenibile vederla alle prese con la faticosa speranza che la porta a tentare ogni rimedio: luce, massaggi, tisane fumanti, diete. Lei si affida come si affida qualcuno che, nonostante tutto, vuole “resistere fino a domani”. Il suono sordo della sofferenza ha spazzato via completamente le parole che suonavano come metro e metro soltanto, ora fanno baccano e mi trascinano con la mente nell'interno di una casa dove una donna soffre piegata in due e attorno a lei, come scintille buone, ci sono un marito e due bambini che s’ingegnano per apparecchiare la tavola. Di ogni momento con lei, con C., con l’endometriosi, il più dolce è stato il suo seccato rimpianto dopo una gita in campagna con la famiglia. “Stavamo camminando e sono inciampata, capisci? Sono caduta giù come una pera cotta, come se fossi un’imbranata” e te lo dice col broncio di una bambina che anche domani, ancora, più forte di prima, cercherà di migliorare i suoi passi mordendosi il labbro. Una donna fortissima e una bambina davanti a un pugno di biglie incontrollabili rotolate altrove, una bambina che cadrà ancora. Lei perde l’equilibrio ogni volta che il suo corpo lo decide e lo impone, lei sa che ci sarà una prossima volta. Vorrei regalare a C. una corsa in bicicletta anche se non ho mai imparato ad andarci e un’altalena veloce che sostenga il peso di tutti i sacchi della spesa all'ombra degli alberi, un taxi pieno di brioches che ci porti in giro all'infinito e una finestrella piccola sulla stanza di sua madre, sempre aperta, per affacciarsi e corrersi incontro senza paura di inciampare. Vorrei esplodere dentro il telefono dalla mia seggiola comoda e dire “Io ho capito la faccenda del metro perché ho capito la faccenda del peso”. Recentemente, seguendo la storia di donne come C., sono incappata in un brutto scambio di battute pubblico e sono inorridita di fronte a ragionamenti di altre donne. Donne che non hanno l’endometriosi. Che dicono alla C. che hanno accanto “smettila di fare la paladina della legge” quando C. sta solo gridando “il mio dolore è lo sconosciuto che è in te”. Perché C. dice solo la gran brutta verità sul fondo: tu non conosci questo calvario. Io forse sbaglio perché te ne spiego i dettagli e ti mostro la parte più risentita e sanguinante di lui, ma tu non lo conosci e continui a non conoscerlo, sei arpionata alla tua seggiola e alle tue dieci unghie perfette, al tuo utero che da qualche parte c’è. E funziona a dovere. E allora perché voltare la testa verso un utero incredibilmente vicino e tanto malato? Perché chiedersi cosa ci sia alla base dell’umiliazione che un gruppo di donne subisce quando ha l’impressione di essere stata spogliata e buttata in pasto alle bocche sbadate degli estranei? Estranei che, magari in buonafede o magari no, srotolano il metro in fretta e furia. Dunque è così incomprensibile che la donna che trema dentro una coperta alzi la testa e dica “Io so di cosa stiamo parlando”? Perché venire qui, su questo sito? Guardare le foto e leggere i racconti? Perché dobbiamo scendere dalla seggiola, dopotutto? Perché interrogarci sul nostro utero se il nostro utero non si è preso la briga di darci problemi finora? Perché l’endometriosi ha bisogno anche di donne non affette da endometriosi che immergano le mani nella malattia. Perché tendere la mano e aspettare che passi la notte è l’unico modo che ho trovato per spingermi dentro la malattia di un’amica, ma a volte si rivela più utile di una pillola. Perché io rispetto il vulcano impaziente e intrattabile che ha dentro e voglio che se ne parli. Qui e fuori di qui, dicendo le cose come stanno e senza sconti, usando - più che termini medici - termini dettati dal suono o dalle emozioni o dalle libere associazioni o dall'empatia. Parole con tutto il loro peso. Vorrei vedere donne ignare che diventano un giorno, magari in un bar, donne consapevoli e di lì a poco si trasformano nel ponte che conduce a chi soffre. Donne che si offrono di portare una spesa o di parlarne nelle scuole, di aiutare ad alzarsi o di stare al telefono un minuto in più. Donne che si gettano in pasto al mostro ingaggiando una battaglia personale senza apparente motivo, vere architetture di sostegno e di affetto che sorvolano i caratterini scuri degli esami clinici ed ereditano, condividono, trascinano il peso a metà. Nel loro piccolo, senza miracoli e senza eroismi, con la strategia della piccola attenzione, lo sguardo sicuro che incontra quello atterrito di C. e in un attimo le sussurra “So di cosa parliamo, so cosa si è appena seduto fra noi, ma qui ci sono anch'io ed è tutto sotto controllo”. Perché io non ti lascio andare via, non mi barrico dietro la mia porta, non ti perdo d’occhio, non voglio darla vinta al tuo intruso e sono qui per dargli la peggiore accoglienza, per strapparlo dal tuo giardino, per fargli capire che non gli conviene affrontarci tutte e due. Sono nata nel 1985, mi chiamo Maria Silvia, sono una scrittrice, ho un’amica che si chiama C., è una persona che amo, ho deciso di toccare senza guanti la sua endometriosi.
Mi chiamo Maria Silvia e ho l’endometriosi.
Ho scelto di avere la stessa endometriosi di C."
Maria Silvia Avanzato
Grazie Maria Silvia, sei un'amica rara e preziosa. C. è una donna fortunata, nonostante l'endometriosi!
RispondiEliminaMaria Silvia....una sola parola...GRAZIE. Ora cerco di smettere di piangere. Sei fantastica...e la tua amica C. è fortunatissima.
RispondiEliminaNon ho parole! Sono piacevolmente sconvolta dalla tua consapevolezza e vicinanza. In più le mie lacrime inducano fino a qual punto tu sia arrivata a fondo nell'osservare quella nostra "stanza" oscura ricoperta di tutt'altro che velluto. Con tanta stima e gratitudine....Daniela
RispondiEliminaMeravigliosa testimonianza di un amicizia immensa che sa'd'infinito... Come vorrei avere anch'io un amica come tè... Grazie di esserci e di aver capito fino in fondo il nostro dolore... Daniela
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